Da rimedio per il rachitismo a preziosa risorsa naturale per contrastare malattie croniche e tumori. Questa la parabola della vitamina D, riscoperta oggi per le sue mille e una qualità benefiche. In realtà non è una vitamina. Si tratta di un ormone necessario allo sviluppo di funzioni chiave dell’organismo.
Storicamente la vitamina D ha vissuto tre momenti di sviluppo ben definiti. Il primo. Circa un secolo fa fu scoperta come rimedio per curare il rachitismo, termine comparso per la prima volta nel 1634, nel registro delle cause di mortalità a Londra. La città era all’epoca oppressa da un forte inquinamento atmosferico, gli abitanti vedevano molto raramente la luce del sole. Circa due secoli dopo, nel 1824, si osservò che alcuni alimenti, come ad esempio l’olio di fegato di merluzzo, tenevano a bada la malattia. Probabilmente, ipotizzavano gli specialisti di quei tempi, il merito andava a una sostanza capace di opporsi al deterioramento delle ossa.
E veniamo alla seconda fase di sviluppo. Meno di un secolo fa si comprese che il segreto era la D, quarta vitamina liposolubile scoperta al mondo. Nel 1960 si aggiunse una nuova consapevolezza scientifica: il valore della vitamina D nel controllare l’assorbimento di calcio e fosforo a livello intestinale attraverso uno specifico recettore (che possiamo considerare la serratura della cellula su cui la chiave/vitamina D va ad agire). Questi elementi hanno permesso di inquadrarla come ormone cosiddetto calciotropo, cioè in grado di agire non solo sul metabolismo calcio/fosforico, ma anche a livello muscolo-scheletrico, dove la vitamina D controlla la funzione delle fibre muscolari a contrazione rapida.
E infine la terza fase di sviluppo, testimoniata da studi epidemiologici. È stata accertata la correlazione tra bassi livelli di vitamina D e diverse malattie croniche, incluso il tumore.
Della nostra Lady D leggiamo giornalmente su riviste scientifiche e stampa divulgativa. All’improvviso una vitamina, che in realtà è un ormone, viene considerata causa e rimedio di tutte le patologie croniche di cui soffre l’umanità: fragilità ossea, rischio cardiovascolare, tumori, funzioni cognitive, malattie infettive e autoimmuni, complicanze fetali. E potremmo continuare. Cosa sta succedendo? Da cosa nasce questo interesse? Si tratta di una sopravvalutazione o stiamo davvero scoprendo virtù ignote di un ormone noto?
Per aiutare i non esperti a distinguere il vero dal falso, abbiamo deciso di affrontare uno dei problemi più stimolanti della medicina moderna partendo dalle acquisizioni scientifiche consolidate nel tentativo di rispondere alle domande e ai dubbi più frequenti. Per semplificare la lettura, alla fine di alcuni capitoli è disponibile un “vocabolarietto” dove sono spiegati i termini più ostici.
Maria Luisa Brandi, fiorentina, laurea in medicina e chirurgia, professore ordinario di endocrinologia all’Università di Firenze. Medico scienziato. Alla carriera accademica affianca quella clinica, oggi primario dell’unità di malattie del metabolismo minerale e osseo nell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Careggi. Da anni impegnata nella pre enzimi e nella cura delle malattie dello scheletro, coordina attività cliniche e di ricerca nel campo dei tumori endocrini ereditari e delle malattie rare dell’osso a livello nazionale e internazionale. Ha pubblicato oltre 650 articoli su peer-reviewed Journals. Molto attiva, come presidente della fondazione di ricerca FIRMO, in campagne di sensibilizzazione tese a diffondere, anche al di fuori della cerchia degli scienziati e dei malati, la conoscenza delle malattie dello scheletro, capillarmente diffuse eppure troppo poco note.
Margherita De Bac, romana, laurea in lettere antiche, giornalista del Corriere della Sera. Sulle pagine del primo quotidiano italiano scrive, in particolare, di attualità in sanità, medicina e bioetica. Ha seguito da cronista alcuni dei maggiori avvenimenti degli ultimi venti anni in questo settore. Esperta di comunicazione scientifica, insegna ai giovani medici universitari a tradurre in forma divulgativa notizie tecniche.