L’interesse pubblico su filoni di vicende di cronaca nera è crescente. Alcuni fenomeni, forse in aumento o forse no, come il bullismo, sono nuovamente definiti e discussi, fino a includere una serie di atti, anche meno gravi, che molti di noi possono aver subìto. Subire una violenza non è un fatto che “certamente” produce effetti persistenti. Il cosiddetto “disturbo da stress post-traumatico” è un disturbo che consegue a eventi gravi rispetto al pericolo di vita o di incolumità fisica, anche in assenza di vere e proprie lesioni. Lo stato di terrore continuato o estremo (anche se limitato nel tempo) può indurre un processo biologico che impedisce al cervello di superare il trauma, e lo mantiene inchiodato ad esso come fosse un’attualità. La persona vive in un confronto continuo con ricordi vivi, reazioni corporee, stati d’animo angosciosi e inizia a ragionare come se la sua vita fosse ormai “sospesa” o rovinata dal trauma subito. I traumi più incisivi in questo senso sono quelli da aggressione personale, paragonati ad esempio a calamità naturali. Non va confuso questo specifico disturbo con una generica idea di aver conservato un dispiacere o essere provati da eventi stressanti, fenomeno comune a cui il cervello tende ad adattarsi in tempi più o meno brevi. Esistono eventi gravissimi e irrimediabili (un lutto, una malattia grave) a cui il cervello tende ad adattarsi, nonostante possano rappresentare uno sconvolgimento temporaneo. Il disturbo da stress post-traumatico è invece caratterizzato dal fatto che lo stress, apparentemente risolto nell’immediato, peggiora nuovamente nel tempo (stress post-traumatico), per un blocco del sistema che consente di “incanalare” la reazione stressante in un processo di apprendimento o oblio. In questo caso la persona, diversamente dalla reazione normale, diventa sempre più vulnerabile e incapace di reazione verso la minaccia che teme, nonostante essa diventi il centro della sua vita mentale.
La sindrome non è sempre uguale però. In alcuni casi prevale uno stato d’umore depresso, dimesso, impaurito e una tendenza a isolarsi, evitare i rapporti, essere impacciati socialmente con un senso di inadeguatezza, inferiorità, e anche colpa (quest’ultimo aspetto caratteristico dello stato depressivo). Altre persone, a parità di trauma, divengono esse stesse violente. Prevalgono l’aggressività, i comportamenti disinibiti, l’umore instabile, associati ad una tendenza all’indifferenza affettiva e alla capacità di “estraniarsi” dal contesto, di cambiare atteggiamento da periodo a periodo, di perdere il senso della propria continuità e coerenza nei rapporti con gli altri, fino a vere e proprie “crisi” d’identità. Possono esservi comportamenti autolesivi e abuso di alcol o droghe.
Perché questa marcata differenza? La cosa sembrerebbe genetica: il trauma “stressa” (forza) un meccanismo che risponde attraverso un irrigidimento della sua struttura. Chi è strutturalmente timido e mite diviene depresso; chi è strutturalmente reattivo diviene aggressivo. Questi bruschi cambiamenti di carattere non hanno quindi un significato preciso rispetto al trauma, se mai sono due modi in cui il trauma è vissuto, senza essere risolto in nessuno dei due casi. Se si vuole riconosce un “senso” adattativo; nel primo caso la persona cerca di adattarsi nel modo che gli è più immediato, cioè ritirandosi, nascondendosi. Nel secondo esponendosi, contrattaccando alla rinfusa.
Vi sono casi estremi in cui la violenza chiama altra violenza, e cioè l’abuso un tempo subito genera un cambiamento che rende la vittima a sua volta violenta verso gli altri, magari nello stesso modo. In questo caso la vittima arriva a “giustificare” la violenza subita dopo averla anche prodotta. Questo tipo di familiarità “antisociale” è comunque solo una parte minore delle reazioni a trauma.
Il criminologo Athens sosteneva che la “violentizzazione” è possibile per chiunque, vale a dire che essere vittime di dinamiche di violenza rende violento chiunque. Questo è verosimile, ma include sia la patologia che l’adattamento “funzionale”.
Cosa uno ricava dalle esperienze traumatizzanti è ancor prima un presupposto strutturale, che una elaborazione libera. Questo è importante per evitare di fare un errore: dare un senso al proprio stato d’animo, come se dovesse spiegare il “perché” di quello che è successo e del proprio disagio successivo, e poi preoccuparsi di come modificarlo. La psicologia del trauma non è la spiegazione del trauma, ma la sua espressione, sulla persona. La migliore “vendetta” per un trauma può essere quella di imparare a capire in base a quali nostre caratteristiche siamo rimasti segnati in un modo piuttosto che in altro e se, al di là di queste, l’offesa ricevuta ha cambiato qualcosa nella nostra capacità di uscirne. In sequenza, le cure devono prima risolvere l’eventuale blocco “post-traumatico”, e poi occuparsi dell’adattamento a partire dalla struttura biologica/mentale della persona.
L’intervento va fatto appena possibile, perché sia le persone depresse che quelle incattivite tendono poi, per meccanismi opposti, a essere nuovamente esposti a traumi: le prime, perché non sanno difendersi, le seconde perché provocano situazioni di cui poi possono rimanere vittime, o che non riescono a controllare in un secondo tempo. Ogni nuovo trauma della serie non sollecita, finalmente, una risposta di adattamento efficace, ma anzi ribadisce i meccanismi del disturbo.
Dott. Matteo Pacini
Psichiatra del Centro Medico Visconti di Modrone.
Fonte: Tgcom24