Il dibattito sul femminicidio, che è endemico su cifre di oltre 100 casi all’anno, sta avendo un effetto collaterale, che non aiuta la comprensione del fenomeno. Questo effetto sta nella contrapposizione tra gli stili relazionali dei due sessi, come se il modo per prevenire gesti estremi o comportamenti dannosi fosse quello di stabilire quale stile è sbagliato, cioè quello maschile. Questo è un po’ inevitabile perché il fenomeno della violenza delle donne sugli uomini, altrettanto frequente, si esprime però per altre vie, tipicamente a basso grado di violenza fisica, e a basso grado di letalità.
A mio parere la comprensione del femminicidio dovrebbe partire dalla comprensione della fisiologia delle relazioni “di coppia”. Uomo e donna, intesi come ruoli, sono complementari e quindi diversi. Il loro incontro deriva da una fondamentale differenza di scopi, progetti e visione della vita di coppia, che però consente una condivisione anche duratura. Allo stesso modo, la conclusione di una storia d’amore significa gestire la diversa reazione d’abbandono, o di cambiamento.
Ne parliamo con il Dott. Matteo Pacini, psichiatra del Centro Medico Visconti di Modrone.
L’uomo è poco predisposto a gestire l’abbandono, e in generale il cambiamento “in uscita”, a meno che, ovviamente di non averlo voluto espressamente. Di fatto però la fine delle relazioni è spesso decisa dalla donna, indipendentemente da quali siano le colpe oggettive o dalla sostenibilità di una relazione che è magari da anni problematica. In altre parole, l’uomo non tende a lasciare, a chiudere. Anche quando la coppia non funziona più, non è detto che la conclusione del rapporto sia per l’uomo una strada facilmente percorribile. Per lo stesso principio, anche quando una coppia si divide perché l’uomo ha altre relazioni, l’iniziativa è dettata da motivi contingenti, logistici, ma quasi mai l’uomo compie una scelta di campo come tale. Idealmente, l’uomo manterrebbe ogni situazione senza cambiare quelle precedenti. Idealmente, la donna tende invece a cercare il nuovo, l’evoluzione e la rigenerazione anche in una storia di lunga data che ormai si è spenta o guastata da tempo.
Questa è la ragione per cui molte vicende sentimentali si protraggono in maniera disturbata: da parte maschile, perché non c’è interesse a finire, e tavola il pensiero di “svincolare” la persona è intollerabile. Dall’altra, la donna spera in un cambiamento sempre meno probabile.
Questa impostazione sempre “in divenire” o “fissa” (della donna e dell’uomo, rispettivamente) rende diverse anche le strategie di chiusura. Mentre l’uomo ha necessità di “chiudere”, o di sapere che è finita in maniera ufficiale, la donna lascia parlare i fatti. Il caso raccontato nel libro “Confessioni di uno stalker pentito” racconta bene come la reazione alla fine di una relazione sia stata alimentata dal non sapere ciò che era ovvio a tutti, ma non ufficialmente comunicato (e cioè che la storia era finita).
Il sesso forte è il più suscettibile alla scelta, e al venir meno della scelta. La scelta del partner è in definitiva appannaggio della donna, che accetta o disdice un rapporto. Se la donna ritiene di non essere più prescelta, o desiderata, può spontaneamente distaccarsi. Molte delle donne vittime di rapporti violenti sono comunque convinte che, in qualche misura, sono uniche e preferite dal loro uomo, e per questa lettura distorta non decidono di porre fine al rapporto.
L’uomo non è preparato né a lasciare, né ad essere lasciato. E’ invece programmato per proporre e difendere, con il rischio di trovare nel partner che pone fine ad una relazione un vero e proprio “nemico” e “invasore” del proprio territorio.
La percezione del ruolo sociale, e questo è più noto, è anch’essa diversa, poiché l’essere abbandonata non mette in discussione il ruolo femminile, mentre essere lasciati dalla propria donna mette in discussione il ruolo sociale maschile.
Per questa serie di fattori è opportuno che il distacco sia gestito senza ambiguità, senza il protrarsi di contatti conflittuali in cui vi sia una escalation o ripetizione di condotte violente, e senza che l’abbandono sia consumato dopo una serie di annunci e minacce, magari in una situazione di vicinanza fisica con il partner violento (ultimi incontri chiarificatori, convivenza che continua dopo essersi lasciati). Non si deve far affidamento sul fatto che la violenza risparmierà la donna in quanto più debole e inoffensiva. L’offesa percepita non riguarda in questo caso una minaccia fisica, ma coincide con l’abbandono, la disdetta, anche in senso sociale. La violenza derivante da frustrazione tende a scaricarsi proprio su chi è in condizioni di inferiorità fisica, chi è più aggredibile.
In definitiva, ci si preoccupa troppo che nella coppia si capisca (spesso inutilmente, perché capire teoricamente non significa identificarsi nella biologia mentale dell’altro) e poco che si sappia come gestire l’altro, specie quando si decide di porre fine di un rapporto.
Fonte: Tgcom24