L’Hikikomori sviluppa un disagio al contatto con il mondo, che non è risolto con il semplice distacco dalle attività, ma che si risolve in un vero e proprio confinamento attivo nel proprio spazio privato. Il mondo è percepito non tanto come oggetto privo di interesse, ma come fonte di minacce e intrusioni, di sollecitazioni a esprimersi, confrontarsi, mettersi in gioco. La necessità dell’hikikomori non è tanto scordare che esiste il mondo, ma di far sì che il mondo scordi che esiste lui, che non lo contatti, non lo calcoli, lo esoneri dal dover esistere socialmente.
I familiari stessi spesso si trovano a fare da ponte tra il “murato vivo” e l’esterno per quanto riguarda il cibo o i vari approvvigionamenti. Idealmente, l’hikikomori eviterebbe anche i contatti minimi necessari, vivendoli come un costrizione dolorosa o minacciosa, come l’aprire la porta al fattorino o il ricevere il medico.
Esiste un film coreano, “Castaway on the moon”, che descrive in maniera convincente il fenomeno. Due individui si ritrovano isolati, per vie diverse (una in casa, uno su isolotto in mezzo a un fiume dopo aver tentato il suicidio). La donna è probabilmente isolata perché ha il volto parzialmente deturpato, l’uomo perché ha perso il lavoro. La vera hikikomori è la donna, che vive chiusa, dorme in un armadio e osserva con un telescopio la città, scegliendo le ore in cui le strade sono vuote. L’elemento umano è vissuto come disturbante. La paura dell’altro può quindi essere la chiave del fenomeno: dopo esperienze traumatiche, o semplicemente in maniera strisciante, oppure dopo delusioni, la persona sente di non poter reggere il confronto, e questo non soltanto con figure importanti o realmente minacciosa, ma con i propri pari.
Il confronto con i propri pari, sollecita un’idea di “irrealizzabilità” personale, di fallimento irrimediabile, di perdita dei presupposti minimi sulla base dei quali progettare un vita sociale. Così come nella fobia sociale, che forse è alla base di parte o di gran parte di questi casi, la paura non è proporzionale al grado di confidenza, e anzi la persona teme maggiormente di essere giudicata da chi conosce. Il terrore non è tanto di poter vedere l’altro, ma di essere visti. Nell’essere visti sta infatti la paura che l’altro possa leggere in noi il disagio, l’imbarazzo, il senso di inferiorità. Se si pensa questo è molto istintivo, e il ragionamento viene dopo: la paura che l’altro si accorga di una nostra condizione di vulnerabilità è, nell’ottica della sopravvivenza, un fatto cruciale. L’hikikomori infatti non fa sapere agli altri di non cercarlo, ma si fa negare si cancella dalla vita pubblica e detesta il fatto che qualcuno possa risalire a lui. Interessarsi di come sta significa metterlo alla berlina, significa mettere in pericolo il suo nascondiglio.
La prospettiva del recupero di un vita sociale è inizialmente difficile perché per provarci bisogna coltivare in sé la speranza, e a riabituarsi a fare delle scelte senza troppi contraccolpi iniziali. Nel film, ad esempio, la protagonista col cannocchiale segue la vita sull’isolotto dell’altro “disgraziato”, senza essere vista da lui. Da questa posizione di sicurezza inizia a comunicare con lui, e ritorna in grado di coltivare un rapporto umano per sua scelta. Per timore di poterlo poi perdere, uscirà dal nascondiglio.