Di recente leggevo su un noto settimanale, in una rubrica del tipo “l’esperto risponde”, una domanda a proposito della dipendenza, a cui si dava una risposta di questo tipo: “se è davvero una dipendenza, i fattori che contano sono la forza di volontà, la motivazione, e il supporto che si trova nell’ambiente. Si procederà ad una disintossicazione, prima, e poi si cercherà di mantenere e incoraggiare l’astinenza con vari metodi”. Se pensate che questo discorso abbia senso, allora potete proseguire la lettura, perché è invece un insieme di errori tecnici (e purtroppo comuni), prosegue il Dott. Matteo Pacini, specialista Psichiatra del Centro Medico Visconti di Modrone, esperto in tema di dipendenze.
Non tutte le dipendenze hanno una cura. Ma quelle che la hanno, si curano secondo meccanismi diversi. Innanzitutto, la “disintossicazione” ha come scopo quello di ridurre gli effetti tossici in atto, o di impedire che si aggravino al punto da causare lesioni irreversibili o il decesso. Al di là di questo però, disintossicare non muove di una virgola la dipendenza. Un “dipendente” disintossicato è malato di dipendenza così quanto uno non disintossicato, e così come prima di disintossicarsi. Quindi, non necessariamente le procedure che vanno sotto il nome di “disintossicazione” devono essere il primo tipo di intervento, e sicuramente non sono un primo passo della guarigione.
Per ripetere una battuta di Celentano in diversi film: ”il meno è fatto” quando uno è disintossicato.
A questo punto molti capiscono che certamente la cura non è finita qui, perché non basta ripulirsi, si deve rimanere puliti. Il punto non è invece proprio questo, perché la malattia non corrisponde alla presenza della droga nel corpo, ma al funzionamento di una certa parte del cervello, che richiama la droga attraverso il desiderio, le emozioni e il comportamento. Si ricade da “puliti”, e non si continua a drogarsi perché intossicati, ma per un cambiamento che è avvenuto nella parte del cervello su cui le droghe hanno “lavorato” costruendo la memoria del proprio desiderio.
E’ una memoria costruita in maniera talmente efficace da non prevedere freni automatici, o regolazione. Si può incoraggiare il tossicodipendente a rimanere pulito? Sì, e questo, quando funziona, allungherà l’intervallo prima della ricaduta, ma non eliminerà la ricaduta né la renderà meno grave. La dipendenza è come una macchina difettosa, che dopo un po’ tende a deragliare. Quando finisce la benzina, si ferma e si può rifare il pieno, ma il problema non è la cosa fa la macchina quando si ferma (la disintossicazione), ma cosa fa la macchina quando ha di nuovo il serbatoio pieno e ricomincia ad andare.
E la forza di volontà che ruolo può avere? Semplicemente nessuno, ma non perché sia importante o non importante, ma perché è un modo di dire, non corrisponde a una struttura biologica. Negli obesi, dipendenti da cibo, è per esempio dimostrato che la volontà può rafforzarsi entro certi limiti, ma quando il loro desiderio cresce, a un certo punto la forza della volontà non aumenta di pari passo, e anzi si inverte. Quando la “macchina” della dipendenza sta andando a 200 all’ora, il cervello non soltanto non frena più con una volontà contraria, cosa che ha provato fino a quel momento a fare, ma lascia andare il freno. La volontà del cervello risponde agli ordini di quella parte di cervello che corrisponde alla dipendenza, e non il contrario. Si potrebbe anzi dire che il tossicodipendente è quello che ha la volontà più esercitata per resistere, fino a livelli che per un altro sono impensabili, ma nonostante ciò non può farcela. Un obeso resiste al cibo continuamente, e sicuramente ha fatto diete dimagranti più pesanti di una persona normale. Ha soltanto collezionato più fallimenti, e meno risultati.
Per quanto riguarda la motivazione, ogni dipendente è motivato a guarire, a meno che non esistano persone che vogliono star male come progetto di vita. Il problema è che questa intenzione non comanda i centri “istintuali” che producono le ricadute, e anzi negli anni può essere distrutta dall’esperienza del continuo fallimento. Il tossicodipendente grave e vecchio può non essere motivato a star male, ma neanche a star bene, perché non sa come può riuscirci. Rimane quindi motivato a sopravvivere negli spazi che la sua malattia gli concede.
Motivazione, volontà e incoraggiamento (dall’esterno) non sono qualità da chiedere a chi è malato, a chi è dipendente, ma elementi da applicare durante la cura, e non per far smettere i sintomi, ma semplicemente per aver pazienza e aspettare che la cura funzioni bene. I pazienti sono spesso così condizionati a pensare di dover metterci forza di volontà e motivazione, che per prima cosa “promettono” di smettere, perché si aspettano che ciò gli sarà chiesto, e su questo ingannano se stessi e chi ingenuamente glielo chiede. Ciò che si deve chiedere al paziente è di seguire le regole di una cura, e motivarlo a farlo senza far fretta ai risultati. Ogni moralizzazione della malattia e della cura, come promesse, giuramenti, contare i giorni di sobrietà, premiare l’astinenza, si ritorcono contro il malato che ricade, distruggendo la sua motivazione a insistere, a guarire per gradi e attraverso le prime ricadute anche durante la cura.
Fonte: Tgcom 24